giovedì 31 dicembre 2015

Quanto è strana la biblioteca di Murakami?

Lasciate ogni speranza oh voi che avete amato "Norvegian wood", "Kafka sulla spiaggia", "A sud del confine, a ovest del sole", "1q84", "L'arte di correre" ecc. Nulla di tutto questo, di tutto quanto finora apprezzato di Haruki Murakami, troverete in "La strana biblioteca". Strana, ma strana forte.

Taglierò corto, non mi dilungherò. Il mio giudizio è quindi presto detto ed in linea con la maggior parte delle recensioni: aspettative deluse, racconto fantasioso e privo di una trama convincente, pubblicazione di scarsa qualità letteraria non fosse altro per le illustrazioni originali e maggiormente evocative del testo stesso. Un fumettone che tuttavia non annoia e tiene incollato il lettore tra le sue pagine (ma forse perché di annoiarsi su questo libricino - inteso come libro di piccole dimensioni - non c'è proprio il tempo: si legge in un'ora!). 

La trama:

"Tornando a casa dopo la scuola, uno studente si ferma in una strana biblioteca. Certo, anche la sua richiesta è un po' strana. Chiede alla bibliotecaria qualche libro che possa soddisfare la sua ultima curiosità: la riscossione delle tasse nell'Impero ottomano. La bibliotecaria lo manda alla stanza 107. Qui l'aspetta un altro bibliotecario, ancora piú bizzarro della prima: «Aveva la faccia coperta di piccole macchie nere, come tanti moscerini. Era calvo e portava occhiali dalle lenti spesse. La sua calvizie non era uniforme. Tutt'intorno al cranio gli restavano ciuffi di capelli bianchi ritorti, come in un bosco dopo un incendio». È davvero una ben strana biblioteca, questa! Il bibliotecario accompagna il bambino attraverso un labirinto di corridoi e stanze, finché non arrivano in una stanza dove riposa un piccolo uomo vestito con una pelle di pecora. E qui le cose si fanno brutte: il bibliotecario e l'uomo-pecora spingono il piccolo in una cella. Il bambino rischia di fare una fine terribile se non arrivasse in suo soccorso una ragazza sconosciuta..."

Una storia senza capo né coda, non si capisce bene se scritta per adulti o ragazzi, che fa parlare di sé solo per via della notorietà del suo autore. Ma allora, proprio perché di Murakami, dove sta il gap? In un suo tonfo a piedi uniti verso la mediocrità o nella nostra incapacità di cogliere il significato più profondo di questa narrazione, legata al potere evocativo dei libri? Ardua la sentenza...

lunedì 28 dicembre 2015

Nella mancanza di punti di riferimento il flop dei libri digitali

Quanti di voi preferiscono leggere su carta? Molti. E tanti hanno dato le motivazioni più disparate: l'odore delle pagine, l'attaccamento e l'affetto veri e propri verso il libro, la copertina, il fatto di possedere il libro che si sente appartenerci. Ebbene, GoodEReader ha cercato di mettere insieme le risposte che i neurolinguisti e gli psicologi hanno dato alla domanda fatidica: perché la carta? Perché al libro digitale manca un punto di riferimento.

Il formato digitale consente per natura di visualizzare non più di una pagina per volta, senza dare al lettore un'idea generale dell'avanzamento nella lettura: quello che vediamo è il modificarsi della percentuale di lettura e - a volte, ma non su tutti i dispositivi - il variare del numero delle pagine; quello che non vediamo è invece lo scorrere le pagine da destra a sinistra, l'occhio e il dito che scorrono dall'inizio di una pagina alla fine della successiva; non sentiamo il libro pesante prima nella mano destra, per poi sbilanciarsi sempre di più sulla sinistra; non abbiamo una netta percezione del "traguardo" raggiunto alla fine del capitolo; non abbiamo una chiara idea di dove finisca un capitolo e ne inizi un altro, semplicemente perché non vediamo mezza pagina bianca sulla sinistra e una chiara intestazione del capitolo dieci sulla destra.

E ancora: concentrarsi leggendo su uno schermo, o addirittura studiandovi, non consente al cervello di creare punti di riferimento né di utilizzare la memoria visiva. Studiando per il compito in classe di storia, quella volta in quarta superiore, siete tornati indietro di due pagine perché non vi ricordavate quella cavolo di data, e sapevate che l'avreste trovata lì. Questo non l'avreste fatto (non l'avremmo fatto) se il libro di storia fosse stato digitale, semplicemente perché le pagine su uno schermo appaiono un attimo e scompaiono subito dopo per lasciar posto a quelle successive.

L'eBook, in pratica, spinge i lettori ad andare avanti, sempre più avanti, senza mai fermarsi. Mette fretta, insomma, e lascia senza punti d'appoggio...

fonte & read more @ Linkiesta

sabato 12 dicembre 2015

Il noema della Fotografia è semplice: E' stato!. "La camera chiara" di Roland Barthes

Il noema della Fotografia è semplice, banale: E' stato.

"La camera chiara-Nota sulla fotografia" (nota nel senso di riflessioni, considerazioni, anche digressione), è stata scritta da Roland Barthes pochi mesi prima della morte e risulta il suo testo piú penetrante. La fotografia, «medium bizzarro, nuova forma di allucinazione: falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo», viene scrutata non in sé, ma attraverso un certo numero di casi, fotografie con le quali si stabilisce una speciale corrente determinata da «attrazione» e «avventura», in un raccordo con la cultura surrealista della foto-descrizione anni Trenta e con una riconsiderazione dell'immaginario sartriano anni Quaranta, e un oggi, un qui e ora, puntualmente vissuto e colto.

Passando poi a uno scavo autobiografico obiettivo - «dovevo penetrare maggiormente dentro di me per trovare l'evidenza della Fotografia» - in cui si ricrea, in una sorta di percorso proustiano, il sentire per affetti e sentimenti. Perché il discorso è interrogazione, è dialogo, ma è anche confessione; al «linguaggio espressivo» e al «linguaggio critico» se ne aggiunge un altro, piú ineffabile e rilevante, vera e propria premonizione: da qui scaturisce una considerazione della fotografia come «studium» e come «punctum» (i due termini usati da Barthes in un distinguo illuminante), ma soprattutto dello storico e dell'effimero in cui viviamo.

L'opera contiene digressioni e riflessioni sull'arte della Fotografia (si noti, nel volume, come il termine "Fotografia" sia sempre riportato con la F maiuscola, a sottolineare l'importanza dell'opera artistica e non dell'immagine!). L'autore prende in considerazione varie fotografie, scattate da diversi artisti tra cui Richard Avedon, Robert Mapplethorpe, Nadar e Niépce, e commentandole trae spunti di riflessione. Barthes distingue tre elementi fondamentali dell'arte fotografica: l'operator ovvero l'operatore, colui che fa la foto; lo spectator ossia il fruitore, lo spettatore; lo spectrum vale a dire il soggetto immortalato.

L'autore distingue inoltre due modi che ha lo spectator di fruire una fotografia: lo studium è l'aspetto razionale e si manifesta quando il fruitore si pone delle domande sulle informazioni che la foto gli fornisce (costumi, usi, aspetti); il punctum, è invece l'aspetto emotivo, ove lo spettatore viene irrazionalmente colpito da un dettaglio particolare della foto. Il saggio La camera chiara è un testo fondamentale anche nell'indagine sul rapporto tra realtà e immagine, comunicazione e rappresentazione fotografica, che consiglio a chiunque desideri approcciarsi al meraviglioso mondo della Fotografia (con la F maiuscola!) in quanto arte e non mera rappresentazione digitale.